Consumare, sciupare, sperperare, dissipare, scialare. Sono – da dizionario – i sinonimi di sprecare. Che significa“consumare in modo eccessivo, scriteriato o inutile”.
L’etimologia non si individua facilmente, ma pare addirittura risalire a prima del Trecento, e derivare dal latino “exprecari”, mandare in malora (ex- e precari “pregare, augurare, maledire”). Siamo le prime generazioni che se lo possono permettere. Di sprecare, di gettare cibo in particolare, come ha certificato ieri l’Osservatorio Waste Watcher International (to waste, appunto, in inglese) nel rapporto italiano 2025 (di cui potete leggere qui sotto) con Università di Bologna/Distal, su elaborazione Ipsos.
Ogni giorno (in estrema sintesi) sprechiamo (in media, a testa) più di 88 grammi di alimenti, che in una settimana sono circa 617, in un mese quasi 2 chili e mezzo. Che si traducono, in un anno, in soldi buttati nella spazzatura: 140 euro pro capite. Per una famiglia di quattro persone, 560 euro. Non poco. Certo, è una media. E non può, di per sé, tenere conto del potere di acquisto purtroppo sempre più divaricato fra i (pochi) ricchi e i (tanti, e in crescita) poveri. Ma se ci pensiamo bene, a buttare nel sacco (dell’organico) qualcosa di scaduto o non più utilizzabile siamo un po’ tutti. I dati (sempre medi) dicono che la hit vede in testa la frutta fresca (un etto al mese), il pane (85 grammi più o meno), le verdure (82) l’insalata (quasi 80), cipolle, aglio e tuberi, spesso perché disponibili in confezioni sovradimensionate al fabbisogno.
Noi italiani (anche gli altri popoli, ma ora pensiamo a noi) siamo spreconi. E questo appellativo, che suona un po’ affettuoso,in realtà nasconde effetti economici e ambientali pesanti. Lo spreco di filiera in Italia costa 14,1 miliardi all’anno (!), quello alimentare nelle case 8,2. Un’enormità, che si traduce in un allontanamento dell’accesso al cibo sano e sostenibile, espresso nell’indice di insicurezza alimentare che nel 2025 è salito del 13,95 per cento (2024: +10,27). Lo studio conclude anche, peraltro, che l’impoverimento alimentare delle famiglie italiane colpisce soprattutto al Sud (+17 per cento) e al Centro (+15), le stesse aree dove si spreca più cibo nelle case (rispettivamente +16 e +4). E, assai a sorpresa, secondo la ricerca sprecano soprattutto le fasce sociali più deboli (+26 per cento rispetto alla media).
Il costo unitario dei beni c’entra, orienta l’acquisto, che spesso per i meno abbienti riguarda beni di qualità peggiore e quindi anche più rapidamente deteriorabili. E d’altra parte, questo vale per tutti, più il prezzo è basso, più saremo tutti orientati a non gestirli con l’attenzione che dedichiamo ai prodotti che paghiamo di più. Carne, verdure, frutta…: vale per ogni cosa.
Certo, in un mondo in cui la medicina suggerisce a tutti, per la nostra salute e il nostro benessere (dal colesterolo in giù) di mangiare meno e meglio, la prima regola dovrebbe essere di cominciare a imparare come selezionare diversamente i prodotti da mettere nel carrello della spesa o nella busta al mercato, guardando in prima battuta quelli più sani (penso al bio, per esempio). Ovviamente, laddove il potere di acquisto è sempre più basso e l’inflazione picchia duro (come oggi), la scelta è purtroppo limitata, se non obbligata.
Ma diventare consumatori consapevoli, in primo luogo della necessità di trovare un nuovo e più giusto equilibrio fra la salute propria e della propria famiglia e la gestione del portafoglio, è il primo passaggio indispensabile per vivere meglio e dissipare meno. La dieta, tutte le diete serie, indicano i prodotti e i quantitativi corretti. Il bene del pianeta, interessi o meno, verrà naturalmente di conseguenza. «Per questo la Giornata che sensibilizza in Italia sullo spreco alimentare lancia la sua sfida a tutti gli italiani», dice Andrea Segrè, fondatore dell’evento e direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher International. «Tagliare 50 grammi di cibo sprecato alla settimana, da qui al 2029, permetterà di arrivare nel 2030 (il traguardo dell’agenda dell’Onu, ndr) a uno spreco alimentare pro-capite che non superi i 369,7 grammi settimanali». Quasi la metà di oggi. Un traguardo fattibile.
Edoardo Vigna
(dalla newsletter Ambiente del Corriere della Sera)